Quel colletto bianco che mi soffoca

Accollata since 2010

Ho sempre avuto un’ossessione per le camicie con allacciature alte, fiocchi, colletti vistosi, per non parlare dei stupendi colletti staccabili di pizzo e perline da applicare a piacimento su anonimi golfini neri, ma ammetto che negli ultimi anni questa tendenza mi è un attimo sfuggita di mano. Di pari passo con la mia stabilizzazione nel mercato del lavoro il mio look si è standardizzato a quello di un’anonima impiegata che cerca la sua mera soddisfazione in vezzose gale e nell’utilizzo compulsivo di post.it.

Ho ceduto alla poltrona comoda, alla tastiera veloce e al caffè gratis, ho venduto la mia anima creativa e irriverente per una luce al neon e quel maledetto stipendio fisso. Mi sono stretta da sola il bottone del colletto e non riesco davvero più ad allentarlo per tornare a far respirare il mio estro, la mia anima, oramai inamidata e profumata di ammorbidente.

Quando mi vesto la mattina penso attentamente a cosa indossare, abbino meticolosamente i colori e gli stili e quando mi specchio vedo esattamente quello che sono diventata. Un colletto bianco.

Citando la mia amata Enciclopedia Treccani colletto bianco è l’espressione, derivante dall’inglese white collars, con cui nel linguaggio della pubblicistica vengono indicati i ceti sociali formati da impiegati, funzionari dello Stato, negozianti ecc., che per la natura stessa della loro professione possono svolgere la normale attività lavorativa indossando camicie chiare, in contrapposizione agli operai e ai contadini, che nel loro lavoro devono invece indossare la tuta o comunque un abito diverso e più resistente con camicia scura, detti per questa ragione blue collars («colletti blu»).

In uno dei miei tanti esami di sociologia all’Università scelsi come libro facoltativo il saggio “La Moda” del sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel, un’analisi della moda come fenomeno sociale, tesa tra la sua doppia natura di omologazione e differenziazione, la stessa tensione che l’essere umano ha nel volersi identificare in un gruppo definito e nel cercare la propria espressione individuale. Simmel sottolinea come in passato sia stata soprattutto la donna a fare un uso maggiore della moda proprio perché la società non le consentiva altre modalità di esprimersi se non quel colletto a gorgiera esagerato che gli uomini e sopratutto le donne del XVI usavano e che da quanto era grande poteva sembrare un paracadute.

È questo che sono diventata? Una donna che non riesce ad esprimersi se non attraverso la grandezza del colletto della camicia? Sto pensando seriamente di cambiare qualcosa nella mia routine o presto inizierò a sembrare un cane con il paravento da protezione o, ancora peggio, potrei iniziare a stirare.

Vuole fare la Rockstar

Ho un vago ricordo del mio buco alle orecchie, fatto in prima o forse seconda elementare. Il bruciore invece me lo ricordo nitidamente. Seduta su una sedia scomoda ho chiuso gli occhi e tac, tanto dolore, ma finalmente potevo indossare tutti gli orecchini d’oro giallo anni ’90 che volevo.

Settimana scorsa ho preso un appuntamento telefonico e ho portato la mia peste preferita a farsi il buco alle orecchie, dopo quasi un anno di richiesta incessante.

Peste preferita

I pianti fatti sul lettino del dentista per una semplice igiene dentale qualche giorno prima mi avevano quasi fatto desistere, ma alla fine complice un pomeriggio libero e nessun programma decente in TV, ho perserverato nel mio obiettivo.

Pensavo, ingenua, che la parte più difficile sarebbe stata la foratura e già mi immaginavo la fuga dopo il primo buco. Ricordo ancora con terrore le pistole per fare i buchi della mia infanzia e non mi sembra che la tecnologia abbia fatto questi passi in avanti in tre decenni.

In realtà contrariamente alle mie previsioni la parte più difficile è stata la scelta dell’orecchino.

Ho rimpianto i soli tre tipi di orecchino che potevi scegliere una volta, o meglio un solo tipo con tre colorazioni diverse.

Purtroppo già da qualche tempo stiamo, io e Emma, dove io di riflesso, attraversando una fase di ribellione e sovversione degli stereotipi infantili – alla veneranda età di 6 anni e mezzo.

Emma Sveva la regina degli unicorni e dispensatrice folle di arcobaleni ha deciso che adesso che è cresciuta si sente piu una tipa da draghi, ha per cui messo al bando qualsiasi immagine fiabesca e qualsiasi riferimento a principesse. Adesso lei è una rockstar 🤘.

La furbetta ha anche obbligato la nonna a pagarle una penale quando per sbaglio la chiama principessa. Qui si capisce pienamente che è mia figlia.

Per fortuna per ora il piccolo di casa sembra gradire gli unicorni e ho quindi rimandato di qualche mese la svendita di 🦄 e 🌈 e 👸.

Potete quindi immaginare la difficoltà di scegliere un orecchino adatto se nel suo armadio le magliette con i Nirvana e Ramones hanno dato un calcio a Frozen e co.

Niente unicorni, niente coroncine, niente stelline, praticamente sfiancata dopo 10 minuti di agone verbale, ero quasi tentata di chiedere se avevano un orecchino con un teschio 💀,  quando improvvisamente mi indica un piccolo panda 🐼 rosa.

A quanto pare il panda è rock. A questo punto la foratura mi è sembrata una passeggiata.

Menomale che nelle etichette per il materiale scolastico mi ero indirizzata su una simpatica giapponesina, visto l’altra ossessione in corso.

Non so dove mi condurranno i 7 anni di questa bambina, probabilmente da uno psicologo molto bravo che mi aiuti a gestire la fatica di abitare con una rockstar capricciosa.

Aspetto con ansia il giorno che Leone 🦁 mi dirà che si sente più Lupo 🐺.

La strada delle cicogne

E poi ti svegli con il profumo del vino e del burro, con il volo delle cicogne intente a nidificare sopra i comignoli, con le case a graticcio dal tetto a spiovente, con il sale grosso sopra i Pretzel e la friabilita’dei Macaron di cui finalmente dopo anni capisci la bontà oltre che la bellezza.

E poi ti svegli dopo una notte di pioggia che hai sentito battere sui vetri della finestra rigorosamente aperta e che speri porti un po’ di fresco perché anche oltralpe il caldo non perdona.

E poi ti svegli assaporando il silenzio di tutta la famiglia che dorme e riguardi le foto del giorno prima, delle viuzze colorate, delle botti di vino abbandonate per le strade in cerca di un padrone, delle piccole fontane nelle piazze e ti dimentichi la fatica, il caldo umido,  i pianti dei bambini. Gli orari in vacanza sono lenti e a fine giornata ad essere stanche sono solo le gambe e le braccia, io e Matteo ci siamo divisi a turno i bambini lagnosi e curiosi, la mia testa ha viaggiato serena e gli occhi hanno fatto incetta di ogni particolare sperando che con il tempo diventi un ricordo.

E poi succede che ti svegli dal torpore e vedi non solo il paesaggio, ma anche chi hai accanto, vedi la tua famiglia e vedi di nuovo il tuo compagno, il suo gomito appoggiato mentre guida, la schiena dritta e rilassata, la sua dote di cambiare idioma a piacimento e di orientarsi ovunque e comunque. 

Questo succede quando si sceglie una strada, anche se lunga, sfidando un po’ le paure e la stanchezza, succede che si viaggia, succede che si insegna a viaggiare, ad assaggiare, a incontrare, ma succede anche che ci si stupisce nel vedere meglio chi abbiamo più vicino.

La strada in questa vacanza ci ha portato fino ad un ex convento di una cittadina alsaziana, a conversare in francese con la vicina che la sera chiude le persiane e con il proprietario tedesco che al posto delle mani ha due birre e che va avanti e indietro per questo giardino che sembra uscito da un cartolina “dimmi che sei in Francia senza dirmi che sei in Francia “.

La strada o forse il San Gottardo ci ha fatto attraversare in diagonale la Svizzera, spostandoci dalla nostra comfort zone di qualche centinaio di km e permettendoci anche qualche incursione nella nostra Foresta Nera e nella Pax Tedesca.

Era un anno che progettavo questo viaggio, un anno che sognavo Colmar e Friburgo, un anno che aspettavo di riempire la valigia e, nonostante il solito tentativo Leonino di ammalarsi, alla fine siamo riusciti nel nostro mini tour del Triplex Confinium – 🇨🇭 🇫🇷  🇩🇪  – ad apprezzare la bellezza effortless francese, la precisione svizzera senza eguali e la naturalezza tedesca che ti fa sentire sempre a casa.

La strada, la route de vin ci ha mostrato paesini da favola come Riquewhir e Rebeauville, paesini letteralmente costruiti intorno al formaggio e al vino, ci ha condotto diritti diritti dentro tutte le boulangerie a fare incetta di carboidrati, ci ha fatto attraversare su una 🚣 il Reno facendo attenzione a non investire tutte le persone che a Basilea si lasciano dolcemente trasportare dalla corrente aggrappati alle loro borse gonfiabili. La strada ci ha poi fedelmente riportato a casa, ad essere NOI casa, imparando dalle cicogne che si accovacciano sui quei tetti per costruire la loro famiglia, anche io voglio cercare e creare il mio nido e non solo in vacanza, ma tutti i giorni, facendo tesoro di quelle sagome riflesse che vedevo nello specchietto retrovisore e che erano davvero speciali.

It’s Lion o’ clock

È  un anno che non dormo e nonostante qualche spasmo facciale non sento nemmeno troppo gli effetti di questa atroce privazione.

Non sbaglio  da tempo le parole quando parlo e da dicembre sto provando anche il brivido quotidiano di non arrivare in ritardo al lavoro. Insomma mi faccio i complimenti da sola. Sennò non me li fa nessuno.

È oramai un anno che in questa casa di Matti – giuoco di parole – si vive il Lion o’ clock. La notte soprattutto ogni ora è l’ora di Leone.

Per tenere testa alla valorosa Emma Sveva, cintura gialla di karate al 3°kata, ci voleva un leone in tutti i sensi.

Testardo, spavaldo e capace di ruggire all’occorrenza.

Non sono ancora in grado di fare un bilancio di quest’anno. Avrei bisogno di un ulteriore anno per tirare le somme su questi primi 12 mesi di Leo in famiglia.

Una cosa è certa. Siamo ancora di più una famiglia di Matti. Ma quanto sono divertente…

Emma Sveva ha accolto il leoncino con le stesse emozioni contrastanti con cui accoglie tutto: amore e odio. Lui la segue come un’ombra, un’ombra che le ruba i giocattoli e i biscotti. Un’ombra invadente e poco incline alle coccole esagerate della mia Mini me.

Io ho scoperto di avere i muscoli nelle braccia e un senso di preveggenza per i futuri disastri, non sempre sufficiente, visto il pazzo truffatore che ama lanciarsi da seggioloni e letti con uno spiccato interesse per la corrente elettrica. Le nostre giornate fatte di una routine folle sanno di pane sbocconcellato e gettato ovunque, pianti interminabili e urla per richiamare attenzione, manine che strappano i capelli e sorrisi a profusione. Il nostro leoncino quando non si lagna, sorride sempre e a tutti.  Convinto che tutti gli sorrideranno, che lo prenderanno in collo e lo coccoleranno. Convinzione che nessuno gli riesce a togliere…

Guarda il mondo con gli occhi spalancati e indica il cielo, gli uccellini fino a che il sole non si riflette in quell’azzurro ipnotico della sua iride e con una smorfia si ritrae, infastidito. Ho sempre voluto un bambino che assomigliasse a suo padre da piccolo, come sempre dovevo essere maggiormente precisa nei miei desideri e includere il fatto che non fosse così noioso, cagionevole e delicato, insomma che assomigliasse meno al padre.

Vado, che la sveglia 🦁 è attivata

Cat sharing

In questi mesi di stop forzato e di lunghe passeggiate con il pargolo insonne ho riscoperto la bellezza del tempo dilatato e della luce naturale. Mi sono totalmente disabituata allo schermo gigante retroilluminato e alla luce fredda del neon e gli unici orari che ho seguito erano quelli scanditi dalle sveglie dittatoriali dell’allattamento a richiesta.

Ma la cosa che ho più amato di questi mesi è stato ritrovare il tempo per parlare che avevo completamente perso. Puntualizzo, prima che scatti la risata del pubblico da sitcom americana, ho ritrovato il tempo per conversare. Del niente, del tempo, dei pannolini, del passato e del futuro. Per la prima volta da anni ho avuto la sensazione di parlare più piano, di non dover per forza premere il tasto veloce avanti. E parlando più piano mi sono presa del tempo anche per ascoltare, così per provare qualcosa di nuovo nella vita.

Ho scoperto così la storia di Fiocco, il gatto condiviso.

Ho scoperto che anche se crediamo fortemente di poter possedere un essere vivente, in realtà non lo possediamo mai veramente, che sia un fidanzato, un figlio o il nostro gatto, in realtà noi abbiamo solo la fortuna e il privilegio di dividere il nostro tempo con chi abbiamo accanto fino a che entrambi ci sceglieremo a vicenda.

Insomma… C’era una volta Fiocco, un gatto coccolone e coccolato che entrava la mattina dal portone e usciva la sera dalla finestra, aveva scelto una casa con giardino per passare il suo tempo e due amici coinquilini per sentirsi amato.

Fiocco si faceva pulire, nutrire e curare. Fiocco però, per la disperazione dei suoi nuovi amici, così come arrivava, scompariva. Per giorni e anche per settimane.

Fiocco non aveva in realtà una casa e una famiglia, Fiocco aveva due case e due famiglie. Fiocco aveva due veterinari e due ciotole. Fiocco in realtà non era Fiocco. O almeno non solo quello. Aveva scelto l’amore di più persone, per fortuna alla fine scelse una sola operazione chirurgica all’anca.

Non so come è finita la storia di Fiocco, le notti insonni sono continuate,  ma sono tornata al lavoro ad abbronzarmi sotto il neon e il cielo azzurro lo vedo solo il fine settimana. Il tempo per ascoltare si è ridotto notevolmente, quello per parlare lo trovo sempre. Me lo immagino Fiocco, lì che vaga a suo piacimento da una casa all’altra, libero e felice con la sua doppia vita. Un po’ lo invidio, ci sono giorni che anche io vorrei avere un altro nome, cibo differente e tante mani che mi accarezzano.

Quello che è  certo che se per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio, dice un vecchio detto africano, per un gatto basta un quartiere.

Mai dire giubbotto di jeans

Sole.

Giubbotto di jeans.

Un sillogismo perfetto, perfetto per la stagione più ballerina di tutte: l’adolescenza.

C’erano una volta due giovani ragazze in un anonimo pomeriggio di febbraio del 2001 o forse del 2002,  il sole era tiepido e tutto sembrava possibile. L’appuntamento fisso alla fermata dell’autobus, un veloce scambio di SMS per mettersi d’accordo e l’idea azzardata di indossare il giubbotto di jeans invece dell’ingombrante piumino alla solita domanda che ti metti.

Nella mente di quelle 16enni tiepido sole era sinonimo di primavera e primavera un ulteriore sinonimo di pantaloni a vita bassa e giubbotto di jeans attillato. La vita così come l’associazione di pensieri era molto più semplice allora.

Così, in quel pomeriggio di febbraio, felici e avvolte nei rispettivi giubbotti di jeans le due amiche uscivano per le usuali giratine in centro, con microborsetta sotto braccio e l’immancabile pacchetto di sigarette nella tasca posteriore dei jeans perché nella microborsetta ovviamente non entrava.

L’incoscienza adolescenziale pero’ non aveva fatto veramente i conti con la volubilita’ di febbraio. Il sole tiepido delle 15.30 alle 17.15 si era trasformato in grigiore umido e i calori modaioli, così come l’ottimismo primaverile, si erano velocemente raffreddati.

Alle 18.00 come due statue di ghiaccio le giovani ragazze tornavano a casa e, dopo litri di the’ caldo, la temperatura corporea tornò normale. I giubbotti rimasero poi, chiusi, nell’armadio fino a marzo inoltrato.

Oggi, di ritorno dall’ufficio, mi sono imbattuta in un bellissimo sole di febbraio, ho squadrato le ragazze uscire da scuola in maglietta, ho sentito caldo, ma non mi è  passato dalla mente, nemmeno per un attimo, di togliere il mio cappotto e lo sciarpone cozychic.

La maturità è quella fase della vita dove percepisci ancora quella sensazione di improvviso entusiasmo per qualcosa di inaspettato e, un istante dopo, ti metti subito a pensare alle possibili conseguenze. Al torcicollo, insomma.

Ma ad ogni febbraio, ad ogni primo sole tiepido, le due amiche, a turno, si lanciano un invito, oggi simbolico.

Febbraio, sole. Giubbotto di jeans?

Poco importa se i giubbotti di jeans abbandonati nell’armadio non vedranno la luce nemmeno a marzo, poco importa se oramai l’autobus non passa più da quella fermata e se le maxibag hanno sostituito le micro borse, la primavera prima o poi arriva anche se non si ha più 16anni, ci vuole solo più tempo per spogliarsi.

Never say never

C’è qualcosa di più odioso che essere una millennial pessimista ed avere a che fare quotidianamente con una boomer ottimista?

Siamo la generazione che ha dovuto fare i conti con le crisi economiche e le frustrazioni, al cui futuro roseo sono state tarpate le ali, la cui ricerca di gratificazione personale ha preso e continua a prendere una sonora porta in faccia, e mentre aspettiamo che finalmente il famoso portone si spalanchi, ci puliamo le scarpe in uno zerbino che lancia moniti di disillusione:

Lasciate ogni speranza voi che entrate.

Lo si accetta, come si accettano i calli, le punture di zanzara, le gastriti, ci si rassegna a cercare una nuova realizzazione interiore, fatta di piccole conquiste quotidiane e strategiche fughe dalla routine.

Tutto merito di un bellissimo percorso verso la consapevolezza e la ricerca dell’equilibrio che va totalmente in frantumi quando tua mamma, boomer & ottimista, sfodera il suo motto preferito “mai dire mai” difronte ad un tuo più che giustificato pessimismo esistenziale.

Te che hai conosciuto solo la versione negativa del suo mai dire mai -《 Non mi pioverà MAI dentro casa 》- non sei così incline a vedere grandi opportunità dietro l’angolo, perché dietro l’angolo vedi solo la perdita d’acqua.

E allora che fai? Cerchi di prospettare alla donna bassa e ottimista gli scenari più realisti sul futuro, cercando di appannare un po’ quegli occhiali rosa. Invano.

Un giorno poi ti senti dire che lei parte con le amiche, va a vedere New York e tu ripensi a quando in tempi non sospetti le dicevi che procrastinare è un lusso che hanno solo gli ottimisti e che oramai era troppo tardi per mettersi a viaggiare.

E poi capita che quel giorno arriva e che lei parte sul serio e nel tuo telefono ti compaiono le improbabili foto di tua mamma dentro il Summit One Vanderbilt che fa il segno della vittoria e così di colpo ti crollano tutte le convinzioni sul futuro. Tutte tranne una: la certezza di quello che ti dirà quando torna.

Cecilia Never Say Never

Ho ingoiato uno stagno

Più uno invecchia e più impara a stare zitto, a mordersi la lingua, a dissimulare le proprie emozioni a vantaggio della pace comune.

L’altro giorno riflettevo in tandem con una mia amica su quanti rospi ho ingoiato per il bene della mia Minime, quante stoccate verbali io abbia trattenuto, quanto effettivamente la maternità mi abbia reso molto più diplomatica e meno egoista.

Matteo se stai leggendo non scrollare la testa incredulo, sappi infatti che, oltre all’ingente quantità di invettive che escono dalla mia bocca, ce ne sono altrettante che quotidianamente trattengo.

Praticamente oramai posso dire di aver ingoiato uno stagno.

Oltre alla stanchezza cronica e ai capelli bianchi la maternità mi ha reso più lungimirante nei rapporti e nel ricucire dove prima avrei tagliato di netto.

Purtroppo, nonostante questa mia nuova veste e i miei studi universitari, l’arte della diplomazia diventa inutile se il mio volto comunica quello che io cerco di non comunicare.

Si percepisce il mio pensiero opposto, la mia critica latente, il sarcasmo acidulo, probabilmente ho qualche spasmo facciale come il sopracciglio alzato della mia Vivien Leigh in Gone with the wind, lei lo alza e improvvisamente si capisce che cosa pensa, la sua ribellione interna. Ugualmente io provo ad essere accogliente verso coloro che mi stizzano, ma mi sa con scarsi risultati visto che Emma Sveva un giorno mi ha detto:

Mamma si vede che non li sopporti..

E io, ingenua:

Chi, i rospi?

L’arte di non stirare

Se Carrie in Sex and the City usava il forno come compendio dell’armadio, io, se avessi spazio, userei l’asse da stiro come scrivania per il PC. Almeno uscirebbe dell’anta dell’armadio dove l’ho segregata da due anni.

In fondo in fondo lo sapevo che non l’avrei mai usata, ma quando mia mamma me l’ha regalata, bella in legno della famosa marca che fa accessori per la casa, mi sono fatta abbindolare, invaghita dalla immagine di me rilassata che stiravo sorridente nella mia nuova casa al 5°piano.

Io che sorrido mentre Non stiro

E invece è rimasta lì. Sola. Abbandonata accanto al ferro da stiro cordless e lo stiratore verticale. Monito della mia totale incapacità a compiere un gesto che richieda tanta pazienza e precisione come stirare.

Ricordo ancora la faccia di Matteo quando vide la mia valigia per la prima volta, i vestiti inseriti in modo casuale, ammucchiati era forse il termine più adatto.

Ricordo la mia faccia quando vidi la sua di valigia al ritorno da un viaggio, precisa come quando era arrivato, con i vestiti perfettamente imbustati.

Ricordo ancora la faccia del babbo di Matteo quando davanti alla domanda su quando avrei iniziato a stirare le Polo a suo figlio, risposi in modo poco ambiguo:

Mai! Perché dovrei farlo io?

Ci vuole perseveranza nel non stirare, ci vuole tecnica nello sbattere i vestiti sullo stendino e una buona dose di speranza nel credere che questo basti a dare una piega.

Perseveranza, tecnica e speranza: ci vogliono tante doti per l’arte del Non stirare

Piccole Costolette crescono

Non poteva essere altrimenti in effetti. Da brava toscana la vorace Emma Sveva ha perso e infine ingoiato il suo primo dentino mentre addentava una costoletta di maiale – costoliccio in questa parte di mondo.

Il primo dentino è così caduto, lasciando una tenerissima fessura tra i denti davanti che, ogni tanto, le fa emettere un sibilo.

La mia Costoletta sta crescendo e io, ero così tanto concentrata ad etichettare gomme, lapis e materiale vario per il primo giorno di scuola elementare, che lo stavo dando per scontato.

Citando un mio vecchio articolo Quando settembre era un inizio questo 15 settembre sarà davvero il suo inizio.

La prima campanella, il primo zaino pesante, la prima compagna di banco, la prima ricreazione. Tante prime cose che poi negli anni diventeranno la sua normalità, ma che domani avranno l’indimenticabile sapore di nuovo e di eccitante.

Mi ricordo ancora il mio primo giorno di scuola – di X anni fa – accerchiata da bambini che piangevano, tutti in fila davanti alla scalinata della scuola. Non avevo paura con il mio zaino delle Barbie sulle spalle, ma potevo toccare con mano quella sensazione di impaziente curiosità, per me il primo giorno è stato un bellissimo salto nel buio, l’inizio del mio percorso scolastico che mi ha regalato, non senza fatica, tante gratificazioni.

Con il mio succo di frutta e la Kinder fetta al latte ero pronta a conoscere il mondo e ad imparare finalmente a leggere e a scrivere, l’inizio di una delle mie più grandi passioni.

Domenica quando Emma ha perso il primo dente gli ho promesso che gli avrei scritto un articolo per ricordare il momento, in realtà le dedico questo post non per quel dentino perso, ma per per il suo prossimo traguardo raggiunto, quei primi passi con lo zaino sulle spalle verso la sua classe. Classe che, visto gli 11 libri, i 7 quaderni e i 2 astucci, mi auguro sia al pian terreno.

Buon primo Inizio Costoletta Emma Sveva sdentata, ricordati di respirare mentre addenti il mondo.

Iniziamo con sobrietà