It’s Lion o’ clock

È  un anno che non dormo e nonostante qualche spasmo facciale non sento nemmeno troppo gli effetti di questa atroce privazione.

Non sbaglio  da tempo le parole quando parlo e da dicembre sto provando anche il brivido quotidiano di non arrivare in ritardo al lavoro. Insomma mi faccio i complimenti da sola. Sennò non me li fa nessuno.

È oramai un anno che in questa casa di Matti – giuoco di parole – si vive il Lion o’ clock. La notte soprattutto ogni ora è l’ora di Leone.

Per tenere testa alla valorosa Emma Sveva, cintura gialla di karate al 3°kata, ci voleva un leone in tutti i sensi.

Testardo, spavaldo e capace di ruggire all’occorrenza.

Non sono ancora in grado di fare un bilancio di quest’anno. Avrei bisogno di un ulteriore anno per tirare le somme su questi primi 12 mesi di Leo in famiglia.

Una cosa è certa. Siamo ancora di più una famiglia di Matti. Ma quanto sono divertente…

Emma Sveva ha accolto il leoncino con le stesse emozioni contrastanti con cui accoglie tutto: amore e odio. Lui la segue come un’ombra, un’ombra che le ruba i giocattoli e i biscotti. Un’ombra invadente e poco incline alle coccole esagerate della mia Mini me.

Io ho scoperto di avere i muscoli nelle braccia e un senso di preveggenza per i futuri disastri, non sempre sufficiente, visto il pazzo truffatore che ama lanciarsi da seggioloni e letti con uno spiccato interesse per la corrente elettrica. Le nostre giornate fatte di una routine folle sanno di pane sbocconcellato e gettato ovunque, pianti interminabili e urla per richiamare attenzione, manine che strappano i capelli e sorrisi a profusione. Il nostro leoncino quando non si lagna, sorride sempre e a tutti.  Convinto che tutti gli sorrideranno, che lo prenderanno in collo e lo coccoleranno. Convinzione che nessuno gli riesce a togliere…

Guarda il mondo con gli occhi spalancati e indica il cielo, gli uccellini fino a che il sole non si riflette in quell’azzurro ipnotico della sua iride e con una smorfia si ritrae, infastidito. Ho sempre voluto un bambino che assomigliasse a suo padre da piccolo, come sempre dovevo essere maggiormente precisa nei miei desideri e includere il fatto che non fosse così noioso, cagionevole e delicato, insomma che assomigliasse meno al padre.

Vado, che la sveglia 🦁 è attivata

Cat sharing

In questi mesi di stop forzato e di lunghe passeggiate con il pargolo insonne ho riscoperto la bellezza del tempo dilatato e della luce naturale. Mi sono totalmente disabituata allo schermo gigante retroilluminato e alla luce fredda del neon e gli unici orari che ho seguito erano quelli scanditi dalle sveglie dittatoriali dell’allattamento a richiesta.

Ma la cosa che ho più amato di questi mesi è stato ritrovare il tempo per parlare che avevo completamente perso. Puntualizzo, prima che scatti la risata del pubblico da sitcom americana, ho ritrovato il tempo per conversare. Del niente, del tempo, dei pannolini, del passato e del futuro. Per la prima volta da anni ho avuto la sensazione di parlare più piano, di non dover per forza premere il tasto veloce avanti. E parlando più piano mi sono presa del tempo anche per ascoltare, così per provare qualcosa di nuovo nella vita.

Ho scoperto così la storia di Fiocco, il gatto condiviso.

Ho scoperto che anche se crediamo fortemente di poter possedere un essere vivente, in realtà non lo possediamo mai veramente, che sia un fidanzato, un figlio o il nostro gatto, in realtà noi abbiamo solo la fortuna e il privilegio di dividere il nostro tempo con chi abbiamo accanto fino a che entrambi ci sceglieremo a vicenda.

Insomma… C’era una volta Fiocco, un gatto coccolone e coccolato che entrava la mattina dal portone e usciva la sera dalla finestra, aveva scelto una casa con giardino per passare il suo tempo e due amici coinquilini per sentirsi amato.

Fiocco si faceva pulire, nutrire e curare. Fiocco però, per la disperazione dei suoi nuovi amici, così come arrivava, scompariva. Per giorni e anche per settimane.

Fiocco non aveva in realtà una casa e una famiglia, Fiocco aveva due case e due famiglie. Fiocco aveva due veterinari e due ciotole. Fiocco in realtà non era Fiocco. O almeno non solo quello. Aveva scelto l’amore di più persone, per fortuna alla fine scelse una sola operazione chirurgica all’anca.

Non so come è finita la storia di Fiocco, le notti insonni sono continuate,  ma sono tornata al lavoro ad abbronzarmi sotto il neon e il cielo azzurro lo vedo solo il fine settimana. Il tempo per ascoltare si è ridotto notevolmente, quello per parlare lo trovo sempre. Me lo immagino Fiocco, lì che vaga a suo piacimento da una casa all’altra, libero e felice con la sua doppia vita. Un po’ lo invidio, ci sono giorni che anche io vorrei avere un altro nome, cibo differente e tante mani che mi accarezzano.

Quello che è  certo che se per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio, dice un vecchio detto africano, per un gatto basta un quartiere.

Mai dire giubbotto di jeans

Sole.

Giubbotto di jeans.

Un sillogismo perfetto, perfetto per la stagione più ballerina di tutte: l’adolescenza.

C’erano una volta due giovani ragazze in un anonimo pomeriggio di febbraio del 2001 o forse del 2002,  il sole era tiepido e tutto sembrava possibile. L’appuntamento fisso alla fermata dell’autobus, un veloce scambio di SMS per mettersi d’accordo e l’idea azzardata di indossare il giubbotto di jeans invece dell’ingombrante piumino alla solita domanda che ti metti.

Nella mente di quelle 16enni tiepido sole era sinonimo di primavera e primavera un ulteriore sinonimo di pantaloni a vita bassa e giubbotto di jeans attillato. La vita così come l’associazione di pensieri era molto più semplice allora.

Così, in quel pomeriggio di febbraio, felici e avvolte nei rispettivi giubbotti di jeans le due amiche uscivano per le usuali giratine in centro, con microborsetta sotto braccio e l’immancabile pacchetto di sigarette nella tasca posteriore dei jeans perché nella microborsetta ovviamente non entrava.

L’incoscienza adolescenziale pero’ non aveva fatto veramente i conti con la volubilita’ di febbraio. Il sole tiepido delle 15.30 alle 17.15 si era trasformato in grigiore umido e i calori modaioli, così come l’ottimismo primaverile, si erano velocemente raffreddati.

Alle 18.00 come due statue di ghiaccio le giovani ragazze tornavano a casa e, dopo litri di the’ caldo, la temperatura corporea tornò normale. I giubbotti rimasero poi, chiusi, nell’armadio fino a marzo inoltrato.

Oggi, di ritorno dall’ufficio, mi sono imbattuta in un bellissimo sole di febbraio, ho squadrato le ragazze uscire da scuola in maglietta, ho sentito caldo, ma non mi è  passato dalla mente, nemmeno per un attimo, di togliere il mio cappotto e lo sciarpone cozychic.

La maturità è quella fase della vita dove percepisci ancora quella sensazione di improvviso entusiasmo per qualcosa di inaspettato e, un istante dopo, ti metti subito a pensare alle possibili conseguenze. Al torcicollo, insomma.

Ma ad ogni febbraio, ad ogni primo sole tiepido, le due amiche, a turno, si lanciano un invito, oggi simbolico.

Febbraio, sole. Giubbotto di jeans?

Poco importa se i giubbotti di jeans abbandonati nell’armadio non vedranno la luce nemmeno a marzo, poco importa se oramai l’autobus non passa più da quella fermata e se le maxibag hanno sostituito le micro borse, la primavera prima o poi arriva anche se non si ha più 16anni, ci vuole solo più tempo per spogliarsi.

Never say never

C’è qualcosa di più odioso che essere una millennial pessimista ed avere a che fare quotidianamente con una boomer ottimista?

Siamo la generazione che ha dovuto fare i conti con le crisi economiche e le frustrazioni, al cui futuro roseo sono state tarpate le ali, la cui ricerca di gratificazione personale ha preso e continua a prendere una sonora porta in faccia, e mentre aspettiamo che finalmente il famoso portone si spalanchi, ci puliamo le scarpe in uno zerbino che lancia moniti di disillusione:

Lasciate ogni speranza voi che entrate.

Lo si accetta, come si accettano i calli, le punture di zanzara, le gastriti, ci si rassegna a cercare una nuova realizzazione interiore, fatta di piccole conquiste quotidiane e strategiche fughe dalla routine.

Tutto merito di un bellissimo percorso verso la consapevolezza e la ricerca dell’equilibrio che va totalmente in frantumi quando tua mamma, boomer & ottimista, sfodera il suo motto preferito “mai dire mai” difronte ad un tuo più che giustificato pessimismo esistenziale.

Te che hai conosciuto solo la versione negativa del suo mai dire mai -《 Non mi pioverà MAI dentro casa 》- non sei così incline a vedere grandi opportunità dietro l’angolo, perché dietro l’angolo vedi solo la perdita d’acqua.

E allora che fai? Cerchi di prospettare alla donna bassa e ottimista gli scenari più realisti sul futuro, cercando di appannare un po’ quegli occhiali rosa. Invano.

Un giorno poi ti senti dire che lei parte con le amiche, va a vedere New York e tu ripensi a quando in tempi non sospetti le dicevi che procrastinare è un lusso che hanno solo gli ottimisti e che oramai era troppo tardi per mettersi a viaggiare.

E poi capita che quel giorno arriva e che lei parte sul serio e nel tuo telefono ti compaiono le improbabili foto di tua mamma dentro il Summit One Vanderbilt che fa il segno della vittoria e così di colpo ti crollano tutte le convinzioni sul futuro. Tutte tranne una: la certezza di quello che ti dirà quando torna.

Cecilia Never Say Never

Ho ingoiato uno stagno

Più uno invecchia e più impara a stare zitto, a mordersi la lingua, a dissimulare le proprie emozioni a vantaggio della pace comune.

L’altro giorno riflettevo in tandem con una mia amica su quanti rospi ho ingoiato per il bene della mia Minime, quante stoccate verbali io abbia trattenuto, quanto effettivamente la maternità mi abbia reso molto più diplomatica e meno egoista.

Matteo se stai leggendo non scrollare la testa incredulo, sappi infatti che, oltre all’ingente quantità di invettive che escono dalla mia bocca, ce ne sono altrettante che quotidianamente trattengo.

Praticamente oramai posso dire di aver ingoiato uno stagno.

Oltre alla stanchezza cronica e ai capelli bianchi la maternità mi ha reso più lungimirante nei rapporti e nel ricucire dove prima avrei tagliato di netto.

Purtroppo, nonostante questa mia nuova veste e i miei studi universitari, l’arte della diplomazia diventa inutile se il mio volto comunica quello che io cerco di non comunicare.

Si percepisce il mio pensiero opposto, la mia critica latente, il sarcasmo acidulo, probabilmente ho qualche spasmo facciale come il sopracciglio alzato della mia Vivien Leigh in Gone with the wind, lei lo alza e improvvisamente si capisce che cosa pensa, la sua ribellione interna. Ugualmente io provo ad essere accogliente verso coloro che mi stizzano, ma mi sa con scarsi risultati visto che Emma Sveva un giorno mi ha detto:

Mamma si vede che non li sopporti..

E io, ingenua:

Chi, i rospi?

L’arte di non stirare

Se Carrie in Sex and the City usava il forno come compendio dell’armadio, io, se avessi spazio, userei l’asse da stiro come scrivania per il PC. Almeno uscirebbe dell’anta dell’armadio dove l’ho segregata da due anni.

In fondo in fondo lo sapevo che non l’avrei mai usata, ma quando mia mamma me l’ha regalata, bella in legno della famosa marca che fa accessori per la casa, mi sono fatta abbindolare, invaghita dalla immagine di me rilassata che stiravo sorridente nella mia nuova casa al 5°piano.

Io che sorrido mentre Non stiro

E invece è rimasta lì. Sola. Abbandonata accanto al ferro da stiro cordless e lo stiratore verticale. Monito della mia totale incapacità a compiere un gesto che richieda tanta pazienza e precisione come stirare.

Ricordo ancora la faccia di Matteo quando vide la mia valigia per la prima volta, i vestiti inseriti in modo casuale, ammucchiati era forse il termine più adatto.

Ricordo la mia faccia quando vidi la sua di valigia al ritorno da un viaggio, precisa come quando era arrivato, con i vestiti perfettamente imbustati.

Ricordo ancora la faccia del babbo di Matteo quando davanti alla domanda su quando avrei iniziato a stirare le Polo a suo figlio, risposi in modo poco ambiguo:

Mai! Perché dovrei farlo io?

Ci vuole perseveranza nel non stirare, ci vuole tecnica nello sbattere i vestiti sullo stendino e una buona dose di speranza nel credere che questo basti a dare una piega.

Perseveranza, tecnica e speranza: ci vogliono tante doti per l’arte del Non stirare

Piccole Costolette crescono

Non poteva essere altrimenti in effetti. Da brava toscana la vorace Emma Sveva ha perso e infine ingoiato il suo primo dentino mentre addentava una costoletta di maiale – costoliccio in questa parte di mondo.

Il primo dentino è così caduto, lasciando una tenerissima fessura tra i denti davanti che, ogni tanto, le fa emettere un sibilo.

La mia Costoletta sta crescendo e io, ero così tanto concentrata ad etichettare gomme, lapis e materiale vario per il primo giorno di scuola elementare, che lo stavo dando per scontato.

Citando un mio vecchio articolo Quando settembre era un inizio questo 15 settembre sarà davvero il suo inizio.

La prima campanella, il primo zaino pesante, la prima compagna di banco, la prima ricreazione. Tante prime cose che poi negli anni diventeranno la sua normalità, ma che domani avranno l’indimenticabile sapore di nuovo e di eccitante.

Mi ricordo ancora il mio primo giorno di scuola – di X anni fa – accerchiata da bambini che piangevano, tutti in fila davanti alla scalinata della scuola. Non avevo paura con il mio zaino delle Barbie sulle spalle, ma potevo toccare con mano quella sensazione di impaziente curiosità, per me il primo giorno è stato un bellissimo salto nel buio, l’inizio del mio percorso scolastico che mi ha regalato, non senza fatica, tante gratificazioni.

Con il mio succo di frutta e la Kinder fetta al latte ero pronta a conoscere il mondo e ad imparare finalmente a leggere e a scrivere, l’inizio di una delle mie più grandi passioni.

Domenica quando Emma ha perso il primo dente gli ho promesso che gli avrei scritto un articolo per ricordare il momento, in realtà le dedico questo post non per quel dentino perso, ma per per il suo prossimo traguardo raggiunto, quei primi passi con lo zaino sulle spalle verso la sua classe. Classe che, visto gli 11 libri, i 7 quaderni e i 2 astucci, mi auguro sia al pian terreno.

Buon primo Inizio Costoletta Emma Sveva sdentata, ricordati di respirare mentre addenti il mondo.

Iniziamo con sobrietà

I used to love..

Non so bene come, ma è successo: sono diventata una persona che odia il giorno del suo compleanno o meglio vorrebbe ignorarlo o meglio vorrebbe che il mondo lo ignorasse.

Come sono passata dalla modalità “Birthday Girl” a “spero che passino veloci queste 24 h” davvero non lo so. Per anni ho aspettato con ansia il 7 settembre sul calendario.

La mia data preferita, quasi apotropaica. Il giorno perfetto per vestirsi strana e per essere al centro dell’attenzione del mio piccolo mondo.

Non so se è la paura di invecchiare o un rigurgito di sobrietà, ma da qualche anno troppa attenzione mi genera un certo fastidio, quasi disagio.

Adoravo per il mio compleanno vedere tutte le mie amiche e costringerle a vestirsi in modo assurdo per seguire i temi delle mie feste, adoravo aspettare la mezzanotte solo per indovinare chi mi avrebbe fatto gli auguri per primo, adoravo progettare vacanze al mare per festeggiare simil abbronzata, adoravo concedermi piccoli regali e dolci deroghe alla mia ferrea routine. La Sacher Torte in primis.

Adoravo avere tutte le mie persone preferite vicino e adoravo per un giorno non pensare ad altro che alla mia acconciatura e al vestito da indossare sulle mie scarpine argento o quale castello impervio slash torre medievale Matteo mi avrebbe fatto visitare, non curante delle mie vertigini.

Adoravo il mio compleanno. Adoravo, io che non amo le sorprese, sorprendere me stessa per un giorno.

Stamani ho adorato il mio caffè e sto adorando questo silenzio mattutino che i pargoli mi stanno regalando. Adoro i pochi, ma sinceri auguri arrivati puntuali per la colazione e cercherò di regalarmi qualcosa di speciale che sia un bagel con il salmone o la cosa più cioccolatosa che riesco a+ salvare dalle grinfie di Emma Sveva, degna figlia di sua madre con il fiuto più potente del mondo.

Contenta di aver avuto la possibilità di oscurare la data del compleanno dai social, devo però ringraziare il mondo virtuale che mi ha profilato negli anni e mi fa rivivere alcuni dei miei giorni speciali.

La donna del giorno*

Anni fa trovai nel mio amato D-Repubblica un articolo dal titolo a dir poco interessante: L’importanza di essere Cecilia, scritto in un bel grassetto nero.

Ovviamente da buon egocentrica ritagliai il titolo dalla pagina per incorniciarlo, come se la mia camera di 20enne non fosse già abbastanza piena di me. Ancora mi sembra strano che non scrissi quel titolo nelle pareti a caratteri cubitali. Forse perché non c’erano più pareti vuote.

Questo episodio mi è tornato recentemente alla mente perché al momento ho difficoltà a capire cosa voglia dire Essere Cecilia e ancora di più fatico a riconoscerne l’Importanza di esserlo.

La mancanza di sonno, la totale simbiosi con un neonato, la permanenza prolungata tra le mie quattro mura e il terrazzo mi hanno trasformato in qualcosa che devo ancora capire. Non lavoro, scrivo poco, leggo ancora meno, cucino spesso, passo le mie giornate tra la farmacia e il parco, con la speranza di accaparrarmi un po’ di fresco.

Ci sono già passata cinque anni fa, so che l’allattamento è immersivo e l’odore del neonato è inebriante – non quello del suo vomitino o dei pannolini sporchi che ti rimane incollato al naso per giorni – e in tutto questo ci si può perdere.

Lo smartphone diventa l’unico collegamento con il mondo con il rischio di rimanere imbottigliati nel mare magnum dei reel di mamme disperate o pancine che fanno apparire l’essere mamma come qualcosa di estremo, in un senso o nell’altro. L’unica zattera di salvataggio sono sempre le amiche, quelle del venerdì sera che come te remano per non affondare e che anche se più vecchie si, ti tengono a galla. Sono le uniche con le quali puoi parlare male dei suoceri, cosa non banale.

Oggi ho messo il piccolo Leone nella palestrina, almeno qualcuno in questa casa finge di fare sport, e mi sono fermata a pensare o meglio a scrivere questo mio senso di straniamento. Cosa vuol dire Essere Cecilia oggi? Come ricordarmi l’importanza di Essere Cecilia oggi?

Non ho trovato ancora una risposta nè alla prima nè alla seconda domanda.

Mesi fa pensavo che in maternità mi sarei finalmente dedicata alle mie passioni: scrivere un libro, fare centrini con il macramè, passeggiare per mercatini e fare lunghe colazioni con un libro o un giornale in mano.
Finalmente avrei avuto il tempo per riconnettermi al mio vero Io, facendo ciò che più amo.

Stupidamente non avevo calcolato il fatto che la maternità implica occuparsi di un neonato ed ecco ad oggi infatti la mia confusione e la sensazione che in questi 4 mesi ho perso tempo, tempo per riconnettermi con la vera Cecilia prima di rientrare al lavoro.

Solo ora che lo scrivo mi rendo conto di quanto utopistica fosse la mia previsione e che essere mamma è da tempo una parte di me, non più separata dalle altre e non meno importante delle altre che compongono il mio Io.

Forse questo è il tempo per fare questo, per essere questo, tempo che mi permetterà poi di fare altro e di essere Altro.

Chissà cosa vorrà dire Essere Cecilia domani.

CHISSÀ, dopo che ho indossato dei pantaloni a pinocchietto per fare un’escursione, non mi pongo più limiti.

Barbie camminata nei boschi

*film con K.Hepburn e Spencer Tracey del 1942

The Marvelous….Tv

Sono davvero pochi i discorsi che mi hanno ispirato, quelli che poi mi hanno illuminato si contano sulla punta delle dita, della mano destra.

Probabilmente se non fossi stata così tanto davanti alla televisione da quando avevo l’età per cambiare canale oggi avrei 3 lauree e un fondoschiena sodo.

Aldilà della morale presente in ogni versione di greco che ho tradotto e di qualche riflessione trovata nei miei libri preferiti, le parole con più pathos e in grado di indicarmi la strada sono state pronunciate da attori del piccolo che del grande schermo. Con tutto il rispetto per i miei amici e conoscenti, professori e datori di lavoro.

E’ stata ovviamente Carrie, nella leggendaria puntata della 6° stagione di Sex and The City, a svegliarmi dalla prospettiva tristissima di accontentarmi di un amore comodo alla veneranda età di 25 anni.

Una Carrie boccolosa e con uno dei suoi famosi vestiti di tulle pronunciò al freddo Russo, reo di averla trascinata a Parigi per farle fare il mero accessorio, queste parole:

Forse questo è il momento di chiarire chi sono io. Io sono una donna, che è in cerca dell’amore, del vero amore. Ridicolo, sconveniente… che ti consuma. del genere: non posso vivere senza di te, amore.

L’effetto ispirante ovviamente è azzerato se uno non ha visto tutte le sei stagioni di Sex and the city, in alternativa ha 3 lauree e un fisico da paura, ma immersa nel mio mood da 25enne delusa dall’amore, l’effetto sbloccante era assicurato. Ancora il bonus psicologo non era previsto.

La scenografia, i costumi e Big che attraversa l’oceano per portarle quell’amore unico e sconveniente hanno contribuito a influenzare la mia mente duttile e a farmi credere nell’amore vero. Vero ed estenuante come quello che mi sono trovata a 26 anni e che a forza di 3 mm all’anno cresce come un Bonsai e con le spine come un 🏜 Cactus.

Lo stesso effetto commovente, dal lat. commovēre «mettere in movimento, agitare, commuovere», lo ha ottenuto in un anonimo pomeriggio di allattamento il discorso molto più ironico e profondo della mia nuova eroina. The Marvelous Mrs Maisel.

Un ebrea di New York vestita come una copertina di Vogue anni’60 che cerca di farsi strada come comica in un mondo di uomini maschilisti e che utilizza le sue disavventure amorose e familiari per spunti ironici per i suoi spettacoli. Midge, irriverente e dal linguaggio osceno per il periodo storico, con i suoi tubini e cappellini abbinati urla almondo la sua voglia di successo e la sua indipendenza.

Cinque stagioni che volano in un attimo, leggere e profonde al tempo stesso, vere e fantasiose come il titolo della serie e che si concludono con il monologo in diretta TV della protagonista che stufa di aspettare si prende il suo meritato successo nonostante i tentativi inutili dei suoi capi e colleghi di boicottarla. Miriam Midge alla fine ci riesce, ottiene quello che voleva e lo fa perché non rispetta le regole imposte, perché forza il sistema e perché fondamentalmente crede in sé stessa. Le sono bastati 4 minuti e una telecamera per spazzare via le delusioni, i fallimenti e la fatica dell’ascesa.

C’era un’opportunità, l’ha presa ed è stata ascoltata. Non serve molto altro per onorare il merito, una semplice opportunità, un’opportunità data, non per forza conquistata.

Non faccio spoiler, dovete ascoltarla e dovete vederla, dovete farvi scendere anche a voi una lacrima, sentir crescere in voi il desiderio di rivalsa e il sacro fuoco dell’ambizione.

Ma sarà possibile che la migliore lezione di empowerment me la deve dare la protagonista di una serie TV?

Ho decisamente bisogno di un taccuino e di un cappellino.