Senza svelare l’identità del mio saggio mentore, poco tempo fa mi è stato detto che in Italia per ottenere dei risultati e dei riconoscimenti è preferibile essere bravi che bravissimi. Mediocri ancora meglio.
Per me cresciuta a pane e manie di perfezione quest’illuminante verità è difficile da digerire, se non causa di gastriti quotidiane. Soprattutto dopo che per tutti gli anni scolastici e universitari si è sempre preteso il massimo dei risultati.
La meritocrazia oggi è merce rara, una mera parola con cui fare bei proclami e creare slogan accattivanti, ma la realtà di molti giovani e – non più giovani -è ben lontana dal significato che la mia amata Treccani ne dà:
meritocrazìa s. f. [dall’ingl. meritocracy, comp. del lat. meritum «merito» e –cracy «-crazia»]. – Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro; il termine, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso. Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione dei posti di responsabilità.
Raramente fuori dall’ambiente scolastico ho sentito il soddisfacente profumo della meritocrazia. Ho sentito tante volte il deludente odore della raccomandazione, del pregiudizio, dello stereotipo, ho sentito più volte il doloroso impatto con i portoni chiusi e le finestre mezze aperte che ti fanno vedere un po’ di luce, respirare un po’ prima di chiudersi definitivamente dopo una folata di vento.
Negli anni sono passata dall’accettazione alla rabbia, dalla rabbia all’accettazione, di non essere giudicata per quello che meritavo, senza sconti e senza rincari.
La maturità almeno quella anagrafica, oggi mi ha donato la lucidità per una critica sana delle mie competenze e capacità, ho abbandonato l’arroganza e la presunzione adolescenziale, ho imparato ad accettare che avevo dei limiti e ho tentato di superarli, migliorandomi.
La rabbia ha con il tempo lasciato spazio al senso di delusione che comunque ha sempre quel cattivo odore di ingiusto. La delusione non è comunque ancora diventata rassegnazione.
Nonostante si tenti quotidianamente ancora di sminuire senza capire, etichettare senza approfondire, io ho deciso di non lasciare che la delusione faccia finire la speranza, devo insegnare ai miei figli che il mio motto SPES ULTIMA DEA non è solo un motto, ma è un diritto.
Al mondo che preferisce i mediocri ai bravi, il minimo al massimo, l’automatismo al pensiero, io dico No.
Non ancora, sarò meno di quello che sono.